Chat di gruppo e chatbot, prepariamoci a usarle anche in azienda

La messaggistica istantanea si candida a diventare una delle tecnologie più interessanti del 2017. È estremamente efficace all’interno delle aziende, a supporto dei processi operativi che coinvolgono diversi gruppi di lavoro e vari programmi software, ma è anche un ottimo strumento di customer service, con i clienti esterni o interni, in ambito HR: con l’intelligenza artificiale sono i computer a rispondere

La tecnologia che farà vincere sul mercato i fornitori di soluzioni per il business negli anni a venire? Non è il cloud e nemmeno l’intelligenza artificiale: sarà invece la chat. Sì perchè già oggi le persone usano più le chat dei social network, ed è facilmente prevedibile che questa abitudine varcherà presto le porte delle aziende. Lo sostiene anche un’analisi del Wall Street Journal secondo cui la messaggistica istantanea potrebbe rivelarsi più significativa di molte altre tecnologie per la produttività perché mette insieme efficacemente sia le persone che diversi programmi software.

Una previsione che fa il paio con quella che riguarda le chatbot, parola che nasce dall’unione di chat e robot, ovvero la messaggistica che grazie all’intelligenza artificiale, o machine learning, non sono gestite da umani ma da computer, in grado sia di interpretare le domande, sia di dare una risposta appropriata. Sono sempre più utilizzate per il customer care (qui il caso Burberry), ad esempio per rispondere a informazioni su orari di partenza e arrivo dei treni, e se ne prevede un uso in azienda a breve, ad esembio nell’ambito dei sistemi HR. Oracle è una delle aziende che sta puntando su queste nuove soluzioni all’interno delle suite HCM (Human Capital Management), per rispondere a domande del tipo: mi è stato pagato lo stipendio? oppure Quanti giorni di ferie ho ancora a disposizione? Dato che sono giovani sviluppatori a programmare le chatbot, il loro uso può anche risultare divertente: le risposte sono generalmente informali e scanzonate.

Tutto più veloce e sincronizzato: l’esempio di una concessionaria di auto

Gli esempi non mancano. L’IT manager di una concessionaria di una piccola cittadina americana nel Maine, sostiene che la sua società oggi non potrebbe esistere senza HipChat, la chat di gruppo di Atlassian: prima per sostituire un pezzo occorreva una richiesta stampata di un rappresentante del servizio clienti e una visita di persona al magazzino ricambi, dove bisognava aspettare che un meccanico controllasse la disponibilità del pezzo richiesto. Ora con la chat di gruppo tutte le operazioni sono online e istantanee. Miller dice che la chat è superiore ad altri canali di comunicazione perché può essere sia sincrona, come un meeting o una telefonata, sia asincrona, come un’email. In più può mettere insieme software diversi dentro la app, come quello che avvia la ricerca online del pezzo di ricambio.

Facebook e Microsoft nell’arena

Non a caso anche i colossi di Internet e dell’hitech si sono messi a sviluppare chat di gruppo: Facebook ha introdotto Workplace by Facebook, la versione business della piattaforma social, e Microsoft ha da poco lanciato la sua funzionalità di group chat Microsoft Teams all’interno della suite per la produttività Office 365. Ma i prodotti sono tanti e alcuni ben posizionati sul mercato, come il citato HipChat e Slack, che conta 4 milioni di utenti attivi quotidiani ed è valutata 3,8 miliardi di dollari.

Il nuovo trend: ChatOps

La novità che sta emergendo e che fa salutare la chat di gruppo come una delle tecnologie chiave per il 2017 è la sua capacità di coordinare le Operations nel business. Il trend è stato ribattezzato “ChatOps”; gli early adopters sono stati gli sviluppatori di software, che hanno integrato le chatbot in Slack o HipChat per informare gli amministratori di sistema di eventuali problemi; computer possono cioè mandare notifiche agli sviluppatori oppure gli sviluppatori possono mandare comandi ai sistemi.

Ora anche professionisti di settori non tecnici cominciano ad apprezzare la ChatOps perché consente di integrare in una sola finestra – la chat – tutte le funzioni di cui hanno bisogno per svolgere il loro lavoro, centralizzando sia i compiti da svolgere che le comunicazioni su questi compiti e aumentando la produttività. “La chat fa il lavoro di 100 finestre del browser aperte”, afferma Steve Goldsmith, general manager di HipChat.

Casi d’uso, dal crowdfunding agli alberghi

Il manager di una piattaforma di crowdfunding per società no-profit, racconta: “Dovevo risolvere un problema tecnico su un sistema a Vancouver: l’administrator era a Washington D.C. e io mi trovavo in un taxi a Nairobi. Anziché infilarmi in una serie infinita di email, telefonate e documenti da guardare che mi avrebbero fatto perdere giorni, ho risolto tutto rapidamente con la chat”.

Infine alcuni hotel hanno connesso i loro dipendenti con le app di chat e creato delle chat room per ogni stanza che permette di tenere sempre sotto controllo se è libera o occupata, se è stata pulita, e così via. Anche Ibm usa Slack per il suo team di design: si tratta di 1.300 persone, che usano la chat per discutere e votare rapidamente i progetti da mandare avanti.

Fonte: Digital4

il Colosseo non basta più, ci vuole il digitale

colosseoAsami ha 25 anni e vive a Tokyo. Appassionata di arte e di viaggi, ha da sempre un sogno nel cassetto: visitare l’Italia. La cultura e la storia italiana sono le sue fonti di ispirazione. Da quando era piccola vorrebbe venire in Italia per poterne ammirare i monumenti, perdersi tra le strade di Trastevere, degustare un bicchiere di vino in Toscana, visitare piazza San Marco a Venezia e fare shopping a via Monte Napoleone a Milano. Come tutte le ragazze della sua età, Asami utilizza internet ogni volta che cerca informazioni e ovviamente anche per organizzare le vacanze. È una tipica turista 2.0: assidua frequentatrice del web, spesso incollata al suo smartphone, quando vuole viaggiare non si affida alle agenzie ma confronta le offerte, chiede consigli online agli amici e condivide le proprie esperienze sui social network.

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Il calo dei siti web aziendali. Servono ancora?

Superato dai social media, il sito aziendale vive un momento di difficoltà. «Non “uccidetelo”, ma fatene l’hub della vostra presenza digitale»: è il consiglio che arriva da un articolo di Forbes, dove però si prende atto che i segnali di crisi esistono

Già un paio di anni fa si iniziò a parlare del declino di queste pagine. Poi è arrivato il calo del 70% del traffico web e altri segnali ancora più forti. Il traffico del sito di Coca-Cola, per esempio, è sceso di oltre il 40% in 12 mesi e quello di Nabisco di quasi il 74% in un anno.

Uno studio condotto da WebTrends ha poi confermato che la maggioranza di Fortune 100 siti web (68%) ha registrato una crescita negativa, con un calo medio del 23% di visitatori unici, mentre  il traffico di Facebook è chiaramente in crescita.

E’ giunto il momento di chidere i siti e traslocare su Fb? In molti hanno risposto di no. Come quel cliente di una media agency che ha detto di non voler limitarte la sua presenza a quello che ha definito uno “stato autoritario”. Perché non bisogna dimenticare che su Fb non si è padroni a casa propria. Le regole del gioco possono cambiare. E un’altra piattaforma può soppiantare quella al momento vincente.

E allora la ricetta prevede che il sito di venti l’hub della presenza dell’azienda nel mondo digitale, mobile compreso. Contemporaneamente bisogna sempre essere presenti sui social media cercando di sfruttare  le caratteristiche di ognuno.

Così per Fb è fondamentale curare con attenzione l’immagine principale della pagina. Deve essere bella, accattivante e pertinente. La timeline deve raccontare una storia, ricordare gli eventi aziendali con l’obiettivo di creare quel coinvolgimento necessario perché la presenza sui social media abbia senso.

Davia Termin, autrice dell’articolo ed esperta di strategia online, parla anche di strategia seguita minuto per minuto in modo da adeguare in tempo reale i contenuti ai gusti e alla richieste degli utenti.

In questo è necessario utilizzare le app di Fb che permettono di avere una maggiore flessibilità dei contenuti e ospitare gare e iniziative promozionali interessanti per i brand.

Non bisogna essere timidi. Anche le piccole aziende che iniziano il loro viaggo su Fb devono cercare subito di aumentare la massa critica dei loro fan. Si parte dai dipendenti e dai loro amici per allargare poi il raggio d’azione.

L’immagine di copertina è importante anche per Linkedin dove  bisogna fare anche un uso accorto delle tab “”Approfondimenti”, “Servizi”, per esempio) che servono a diversificare la propria presenza.

Includete anche i vostri dipendenti e assicurategli anche risorse utili per il loro lavoro. Create un gruppo e incoraggiate dipendenti e stakeholder ad aderire. In questo modo le persone potranno avviare discussioni o brainstorming. Il gruppo però deve essere chiuso in modo da evitare spammer e altri input estranei. A questo punto però non dimeticatevi della pagina Linkedin perché sarà importante partecipare all discussioni, far sapere il punto di vista dell’azienda.

Nel caso di Google+ i consigli sono simili a quelli di Fb con l’aggiunta che è importante sincronizzare il tutto con Youtube, un ulteriore canale per i messaggi aziendali.

Tutte queste presenze dovranno poi essere armonizzate nel sito istituzionale che dovrà comunque avere contenuti dinamici e farsi trovare sui motori di ricerca. Forse non sarà più la home page della presenza sul web di un’azienda, ma luogo “sicuro” dove lanciare i propri messaggi poi declinati sulla altre piattaforme.

 

Fonte: ict4executive.it

Apps di successo in poche mosse

Esistono strumenti e nuove opportunità tecnologiche per riscuotere successo con un’app, a partire dall’indicizzazione delle applicazioni. Ecco cosa deve sapere uno sviluppatore per portare un’app in classifica

Indovinare il successo con un’app non è per niente facile: dipende dalla categoria, dalla fascia di prezzo, dal marketing e dal passa-parola. I download dagli App Store Mobili saliranno a quota 102 miliardi nel 2013, in crescita rispetto ai 64 miliardi del 2012. Le apps gratuite deteranno il 91% dei download complessivi del 2013, mentre gli acquisti in-app o in-app purchases (IAP) saliranno dall’11% del 2012 al48% dei ricavi degli app store dal 2017. Gli acquisti in-app (IAP) traineranno il 17% del fatturato degli store nel 2013, per crescere al 48% nel 2017. Si prevede che gli app store combinati di iOS e Android deterranno il 90% dei download globali nel 2017. Inoltre gli utenti pagano solo se soddisfatti e gli sviluppatori devono lavorare sodo per guadagnare, scommettendo su un buon design e sulleprestazioni delle loro applicazioni.

Ma chi realizza apps deve tenere conto che è in atto la convergenza di quattro potenti forzesocial, mobile, cloud ed informazione continuano a trainare il cambiamento e a creare nuove chance.

Tuttavia esistono strumenti e nuove opportunità tecnologiche per riscuotere successo con un’app, innanzitutto collegandola a un sito. Innanzitutto bisogna comprendere come viene utilizzato un sito Web tramite i social network (chi condivide determinato contenuto e attraverso quali canali). Shareaholic è uno  strumento prezioso di Web Analytics anche se è solo uno dei tanti strumenti a disposizione degli espertoni di usabilità per cercare di capire ed ottimizzare il funzionamento dei diversi canali della comunicazione digitale.

SimilarWeb invece, pur non offrendo dati quantiativi precisi ma solo approssimativi, sorprende per la precisione con cui misura l’andamento (trend), mentre la funzione App Indexing for Google Searchriesce a stupire gli addetti ai lavori.

Permette di collegare il proprio sito Web alla corrispondente app in modo tale che quando emerge un determinato risultato di ricerca, l’utente finale abbia la possibilità di aprire anche l’app a cui fa riferimento il risultato nella serp di Google (serp significa Search Engine Results Page). L’indicizzazione delle apps rappresenta un’altra freccia al proprio arco che permetterà a Google di consolidare ulteriormente il suo primato nei mercati dell’OS mobili.

Fonte: http://www.itespresso.it

I social network dei professionisti, fra cautela e curiosità

Le reti sociali sono potenzialmente un nuovo strumento di comunicazione e contatto con colleghi e clienti, ma tutti concordano di non poter affidare al caso la partecipazione. Le opinioni di avvocati, commercialisti, notai e architetti.

Esperienze

Curiosità, interesse. Ma anche cautela. È con un misto di sentimenti che molti professionisti stanno guardando ai social network, in questo periodo.

O, almeno, questo è vero per i più attenti alle novità che vengono dai nuovi media, a quanto risulta da una ricognizione compiuta su cinque di loro (due avvocati, un commercialista, un notaio e un architetto).

Sono professionisti noti per avere una certa familiarità con le nuove tecnologie. Si rendono conto che i social network sono potenzialmente un nuovo strumento di comunicazione e contatto con colleghi, studenti . E anche un modo per farsi conoscere professionalmente.

Tuttavia, qualunque sia il loro livello di utilizzo dei social network, tutti concordano di non poter affidare al caso la propria partecipazione. C’è una bella differenza, insomma, tra l’uso personale e quello professionale.

Se si aderisce a un network, a scopi professionali, bisogna per prima cosa seguirlo con attenzione, partecipare con costanza e contribuire con contenuti rilevanti (non scritti di getto). Infine- concordano-, bisogna avere cautela su quello che si scrive: il rischio di diffondere informazioni riservate è sempre in agguato.
Le esperienze
La selezione è importante, non solo dei contenuti ma anche dei posti da presenziare. «Quando sono sbarcato sui social non c’erano molti colleghi e mi sono messo ad osservare: volevo capire come un avvocato potesse utilizzare questo nuovo strumento per fini professionali. Li ho provati tutti, ma ho conservato i profili solo su alcuni, quelli più utili per un avvocato (Linkedin, Twitter, Facebook e Google+)», dice Ernesto Belisario, avvocato pioniere di questi temi.

«Dopo tanta osservazione ho iniziato a condividere: notizie, approfondimenti, eventi. È grazie ai social che mi informo, che dialogo con amici e clienti. Ma senza l’ossessione del numero di follower: dopotutto, non sono “Lady Gaga”», aggiunge. A conferma che per un professionista sui social vale più la selezione (la “qualità”), che la quantità. In generale quindi contano criteri diversi rispetto a quelli di una partecipazione personale.

Concorda Guido Scorza, avvocato specializzato in nuove tecnologie: «sui social ho condiviso e continuo a condividere informazioni e questioni delle quali mi occupo professionalmente. O di cui ci si occupa nel mio studio. È un modo per fare informazione giuridica e confrontarsi con colleghi e società».

Molto intensa è l’attività social professionale di Arrigo Panato, commercialista: «il mio studio è presente su tutti i principali social network con una propria pagina alimentata automaticamente dagli aggiornamenti dei nostri blog o riportando gli articoli apparsi su riviste professionali», dice. È un approccio cattedratico, perché «il dialogo con la rete preferisco gestirlo in prima persona con il mio account personale».

«Una pagina Facebook deve essere molto focalizzata. noi gestiamo sia una pagina di studio sia una pagina di supporto al manuale sulle perizie di stima. Questa ci sta dando molte soddisfazioni e ha superato i 300 fan. Per essere un argomento così specifico anche per i commercialisti non è poco», continua.

«Alcuni studenti hanno usato il libro e la pagina Facebook per preparare la tesi, scambiarsi consigli e chiedermi suggerimenti. in poco tempo si è creata quasi una comunità di pratica».

Diversa è l’esperienza di Fabio Fornasari, architetto: «ogni mio progetto si misura a diversi gradi in generale con la rete. Per esempio http://laboratoriomuseodiffuso.wordpress.com. In ambiente fisico raccolgo i commenti giacché la gente è restia a parlarne. Ma su alcune pagine Facebook si trovano scambi che fanno riferimento al progetto». «Non uso troppo Twitter, per mancanza di tempo. Facebook  sì perché qui i contributi giocano non sul secondo ma sulle ore: riesco meglio. Ma potessi avere qualcuno che lavora per me lo userei di più. LinkedIn lo aggiorno non troppo spesso, ma penso sia utile», aggiunge.

Il notaio Giampaolo Doria invece sta ancora valutando il da farsi. «Il nostro studio non si è ancora dotato di una pagina su nessun social network, pur essendo presente su internet con un proprio sito», spiega. Tuttavia, «stiamo lavorando ad un sito di nuova generazione che ci consenta di pubblicare immediatamente anche su Facebook alcune notizie mano a mano che le pubblichiamo sul nostro sito».

Perché questa scelta? «Fino ad oggi siamo stati molto prudenti con questo tipo di apertura perché per il tipo di attività professionale svolta abbiamo sempre ritenuto preferibile mantenere un atteggiamento piuttosto sobrio».
«Nondimeno, i recenti sviluppi normativi, in materia di deregolamentazione delle libere professioni,  stanno spingendo sempre di più i liberi professionisti a dover essere maggiormente incisivi nel mercato e, quindi, a dover impiegare sempre di più ogni tecnica per farsi conoscere da un pubblico più o meno ampio».
L’utilità dei social
Prima di vedere come usare i social con efficacia, chiediamoci a che cosa possano servirci. Belisario ritiene che ci siano tanti motivi per cui un professionista dovrebbe utilizzare i social media.

«Il primo: nella società dell’informazione, non è più possibile aspettare di ricevere la rivista cartacea per approfondire e studiare. Nel 2012, la tempestività nell’accesso alla conoscenza diventa un importante fattore competitivo e può essere assicurata solo attraverso i social; il primo passo per un professionista dovrà essere quello di selezionare attentamente i contatti tra le fonti più autorevoli nelle materie di attività».

Il secondo motivo: «grazie ai social possiamo conoscere in modo puntuale i trend del mercato, in modo da poter intercettare al meglio le esigenze dei clienti (acquisiti e potenziali)».

«Infine, certo c’è un’utilità promozionale e di marketing; ma attenzione a non enfatizzare: i clienti non arriveranno solo perché siamo sui social, ma se dimostreremo di essere seri e competenti».

Sulla stessa linea Scorza: «la presenza di uno studio sui social ha un duplice valore: è un’importante vetrina per presentarsi ad un pubblico ormai amplissimo di potenziali clienti in modo, peraltro, colloquiale e non “aggressivo” e, soprattutto, consente di intercettare esigenze e problemi della società, dei cittadini e delle imprese con straordinaria rapidità. Si può rispondere così a un’esigenza di costante aggiornamento. Fondamentale per uno studio professionale moderno».

Panato insiste sull’aspetto di arricchimento e conoscenza: «è incredibile la ricchezza di suggerimenti e proposte che possono arrivare dalla rete per ridisegnare lo studio professionale, per ridefinire la nostra strategia, per restare aggiornati ed approfondire argomenti specifici anche professionali».
I consigli
Ma come usare i social network?  C’è una regola d’oro, concordano i professionisti: bisogna partecipare attivamente ai social dove si è presenti. «Se si sceglie di esserci, occorre investirci tempo e risorse. Frequentare la pagina, coltivarne gli utenti e tenerla aggiornata, verificando, costantemente, i feedback che si ricevano», spiega Scorza. «Niente di peggio di invitare qualcuno a casa propria per un confronto, dichiararsi disponibili al dialogo e poi non dedicargli tempo e attenzioni».

«Ma bisogna evitare di essere autoreferenziali», precisa Belisario. «Le persone non hanno tempo da perdere e non sono interessate a chi si imbroda, bisogna accettare le dinamiche del Web 2.0.

Bisogna anche mettersi dalla parte dell’utente: cercando di capire qual è il valore aggiunto che un utente ha se ci segue. E quindi lavorare sui contenuti di qualità», aggiunge.

Concorda Panato: «Il rischio su Facebook è confondere il lato personale con quello professionale e perdere di costanza e profondità negli aggiornamenti. Per essere credibili bisogna essere costanti e pubblicare approfondimenti attendibili nonostante lo strumento spesso porti a privilegiare l’immediatezza ed una certa superficialità».

Infine, una cautela: «attenzione alla riservatezza: non divulgare informazioni che devono rimanere segrete», dice Belisario. «Non bisogna mai dimenticare i poteri e doveri di sorveglianza dei rispettivi organi o ordini di appartenenza, i quali continuano a vigilare sui contenuti social. Con risvolti certamente ancora da scoprire», dice Doria.

di Alessandro Longo

fonte: ict4executive.it

Come salvaguardare il business e la reputazione in Rete

Come salvaguardare il business e la reputazione in Rete

Dalla definizione delle priorità al monitoraggio dei social media, ecco il decalogo di MarkMonitor per una efficace protezione del brand

di Luigi Ferro

Brand protection

09 Gennaio 2013

Aiutare le aziende a salvaguardare la reputazione e il business in Rete. E’ questo l’obiettivo del decalogo stilato da MarkMonitor, società specializzata nella protezione dei marchi. Vediamo le regole più importanti da seguire.

Definire le priorità

La questione è capire il “chi, cosa, dove e quando” dell’abuso del marchio. Un buon punto di partenza è quello di rivedere l'intelligence fornita dal programma di protezione del marchio. Cercare risposte a domande come: chi sono i maggiori responsabili? Quali sono le tattiche comuni utilizzate dai cybercriminali? Dove avvengono gli abusi e quali siti Web violati ricevono la maggior parte del traffico? Quando si verifica l’effetto maggiore delle violazione?

Agire tempestivamente

A queste domande bisogna poi dare delle risposte agendo con tempestività. Diagnosi e azione anticipata aumentano infatti il successo degli sforzi di tutela del marchio. Se si riesce a intercettare per tempo i siti che operano in modo illegale è facile che i cybercriminali decidano di non investire tempo e denaro per un sito già monitorato.

Focus sulle reti, non sui singoli

La soluzione migliore rimane però quella di concentrarsi sulle reti criminali, non sui singoli operatori. Individuare i truffatori online uno per uno può richiedere molto tempo e non è particolarmente efficace. E’ meglio tentare di identificare le reti di siti non autorizzati, a volte migliaia, gestiti da un singolo individuo o da un gruppo. Si inizia dalla verifica dei registri Whois e dall’esame di indirizzi IP seguendo le analogie che collegano i siti tra loro. In questo caso è necessaria però una soluzione tecnologica che permetta di risparmiare tempo e risorse, automatizzando il processo.

Monitorare i social media

Il monitoraggio dei social media è fondamentale. Occorre tenere sotto controllo i siti che imitano il vostro marchio e tutte quelle pagine che potrebbero ingannare i vostri fan e follower. E quando si rilevano casi di contraffazione del marchio e frodi, assicurarsi di utilizzare gli strumenti di controllo forniti da questi siti.

Controllare i canali di vendita

Nei canali digitali, rivenditori e affiliati fanno da moltiplicatore, portando nuovi clienti e traffico sul vostro sito. Deve essere però un lavoro di squadra, con una policy condivisa che regoli eventuali offerte fatte con determinate parole chiave. Se gli affiliati fanno offerte su parole chiave del brand, stanno essenzialmente intercettando del traffico destinato al vostro sito. Bisogna quindi sviluppare una politica chiara per l'uso delle parole chiave ed essere sicuri che rivenditori e affiliati abbiano capito i termini e le condizioni della partnership.

Stabilire chiare metriche ROI

Anche per la protezione online è necessario stabilire metriche per calcolare il ritorno sull’investimento come si fa per altre iniziative di marketing digitale. in analogia a quanto si fa per altre iniziative di marketing digitale. Si inizia con la definizione di obiettivi concreti per il programma di protezione del marchi, individuando le metriche che verranno utilizzate per misurare le performance e il ROI. Se la paid search è una parte importante del vostro programma di protezione del marchio, misurate i miglioramenti in termini di CPC (Cost per Click) e/o altri indicatori quali il traffico web, i tassi di conversione (le visite e gli acquisti realmente effettuati) e i ricavi.

Attenzione ai nuovi domini

Con il lancio di nuovi domini di primo livello generici (gTLD), le pratiche di registrazione “difensive” del passato dovranno essere rivedute. Tentare di registrare ogni variazione, errore di ortografia e typosquatting in ogni dominio di primo livello nuovo diventerà presto un costo proibitivo. Cercate di avere un occhio critico sul vostro portafoglio di domini, abbandonando quelli che non servono più (domini associati a promozioni scadute, prodotti obsoleti e via dicendo).

Mettere in sicurezza i domini più importanti

Gli attacchi di social engineering e altri tipi di violazione della sicurezza dei nomi a dominio sono in netto aumento. Ecco perché l'azienda deve individuare i suoi nomi a dominio più preziosi e, se possibile, bloccarli a livello di sistema di registro, in modo da evitare azioni fraudolente.

La brand protection inizia prima del lancio del prodotto

Le attività di protezione del marchio iniziano ben prima che il prodotto venga lanciato. In realtà, la protezione del marchio riguarda tutto il ciclo di vita del prodotto ed è consigliato coordinare le attività di registrazione dei marchi con quelle di registrazione del nome a dominio per moltiplicare le difese del brand.

Sincronizzare strategia di protezione del marchio ed espansione internazionale

Man mano che i consumatori utilizzano i canali digitali, i cybercriminali prendono atto di nuovi comportamenti e reagiscono di conseguenza. Per questo è necessario espandere le attività di tutela del marchio. Identificate i principali mercati geografici specifici, siti di aste, motori di ricerca e siti di social media. Definite una strategia di protezione del marchio scalabile in modo che la vostra azienda possa facilmente adattarsi e rispondere agli specifici canali per paese.

fonte:
Come salvaguardare il business e la reputazione in Rete.